“[…] dovunque l’animo volse nelle cose difficili,
con facilità le rendeva assolute”
(Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori)
“Nella pittura, posso fare
ogni cosa sia possibile fare”
(Lettera di Leonardo da Vinci a Ludovico Sforza, 1582).
Tra il Quattrocento e il Cinquecento, sono vissuti in Italia alcuni uomini nei quali può sintetizzarsi al livello più alto il concetto di arte figurativa.
L’epoca storica in cui costoro vissero, non a caso definita “Rinascimento”, espressione che efficacemente descrive il risorgere delle arti figurative dalle ceneri di quel periodo oscuro e controverso che è stato il medioevo, fu effettivamente ricca di fermenti innovativi e creativi. Friedrich Engels, all’interno del suo saggio Dialettica della natura, ne riassume con straordinaria concisione le peculiarità, definendola “il più grande rivolgimento che l’umanità avesse fino allora vissuto: un periodo che aveva bisogno di giganti e che procreava giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carattere, per la versatilità e l’erudizione”.
Tra questi, la personalità di Leonardo da Vinci è quella che meglio esprime l’anelito intellettuale e la sete di sapere assoluto tipici del tempo. La sua mente infinita ha penetrato ogni ambito della realtà, nel tentativo di ricercare le leggi fondamentali che sovrintendono i fenomeni della natura al fine di ricrearla in forma artistica.
Come dimostra il Trattato della pittura, i dipinti leonardeschi esibiscono una sinergica compenetrazione tra ricerche scientifiche e pittoriche, attività che si rivelano armonicamente complementari. Il trattato rappresenta un vero e proprio laboratorio incandescente di idee e pensieri, la cui omogeneità poggia su una considerazione per certi versi intuitiva, ma nient’affatto scontata: l’artista non deve imitare sé stesso o altri, bensì modulare costantemente il proprio intelletto sulla natura e, soprattutto, sulla potenza creativa del pensiero. Infatti, se nel paragrafo 5 si legge: “Chi biasima la pittura, biasima la natura, perché le opere del pittore rappresentano le opere di essa natura”, nel paragrafo 9 viene specificato che “Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo, perciocché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle”.
L’opera d’arte diviene allora una trasfigurazione mentale della natura, una sorta di riproduzione senza somiglianza che permette di coglierne l’essenza metafisica, dal momento in cui conduce l’occhio dell’osservatore ben al di là della stessa immagine raffigurata, fino a renderlo compartecipe della ri-creazione artistica.
La chiave imprescindibile per accedere alla comprensione del pensiero artistico leonardesco risiede nel fatto che il pittore non deve limitarsi a gettare «una sponga piena di diversi colori in un muro», perché in questo modo, «lascia in esso muro una macchia» (paragrafo 57).
Piuttosto, la sensibilità e la bravura del grande artista emergono dalla capacità di ritrarre il proprio oggetto in modo che esso «abbia le sue ombre e lumi in termini più insensibili, il quale sarà interposto fra maggiori obietti oscuri e chiari di quantità continui» (paragrafo 653).
Leonardo spiega questo complesso sistema di transizione cromatica, ricorrendo alla c.d. Figura P, che pare aver importato sul piano pittorico dalla filosofia del contemporaneo Niccolò Cusano, il quale la elabora nel saggio intitolato De coniecturis.
Si tratta dell’intersezione di due piramidi opposte, rappresentative della luce e dell’oscurità, i cui vertici toccano il centro delle rispettive basi.
In tal modo, al centro di questa figura geometrica, si crea una circonferenza all’interno della quale la piramide luminosa (o quella oscura, a secondo del punto di vista adottato) si sovrappone alla piramide oscura (o a quella luminosa), generando l’ombra, la quale, poiché «è mistione di tenebre con la luce, e sarà di tanto maggiore o minore oscurità, quanto la luce che con essa si mischia sarà di minore o di maggiore potenza» (paragrafo 652), raggiungerà l’acme nella parte centrale di detta circonferenza e, per transitività, della Figura P (paragrafo 618).
In altri termini, Leonardo afferma more geometrico, con ordine geometrico, che la perfezione stilistica verrà raggiunta dal pittore attribuendo il giusto rilievo cromatico alle figure rappresentate, corrispondente al centro della Figura P, e che è possibile definire il colore generato dall’esatto incrocio tra luce e oscurità: il colore dell’ombra.
Se questo è il fine del pittore, la tecnica utilizzata per raggiungerlo si fonda su un’idea tanto prodigiosa quanto innovativa: lo sfumato.
Passando con un dito o con una stoffa i lineamenti di un volto o di un paesaggio, oppure utilizzando un colore diluito e tenue, lo scienziato-pittore da Vinci cambia per sempre il paradigma della pittura, fino ad allora basata su una netta demarcazione dei contorni cromatici dell’oggetto dipinto.
Si tratta di una tecnica sofisticata che Leonardo ha sviluppato sin dagli esordi della sua carriera, quando era un giovane talentuoso della bottega del Verrocchio, a quel tempo tra le più rinomate di Firenze. Giorgio Vasari, ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, racconta un simpatico aneddoto che evidenzia la portata rivoluzionaria dello sfumato leonardesco, oltre alla sua eccezionale precocità intellettiva. Ancora ragazzo, Leonardo venne incaricato di dipingere un angelo all’interno di una imponente tavola ad olio e tempera raffigurante il battesimo di Cristo immerso nella campagna di Firenze (quello di sinistra, assumendo una prospettiva visiva frontale), alla cui composizione parteciparono, oltre al maestro Andrea Verrocchio, tutti gli altri allievi della sua scuola d’arte.
La grazia e la sublimità dello sfumato leonardesco, sottolinea il Vasari, erano già tali che “benché fosse giovanetto, lo condusse in tal maniera, che molto meglio de le figure d’Andrea stava l’Angelo di Lionardo. Il che fu cagione ch’Andrea mai più non volle toccare colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui.”
L’attività di pittore di Leonardo, dunque, comincia con questo dettaglio, che troverà definitivo compimento nei successivi dipinti, tra i quali spiccano – per citarne alcuni – La Madonna Benois, La Dama con l’ermellino, La Vergine delle Rocce (in particolare nella seconda versione) e, soprattutto, La Gioconda, le cui sfumature velanti recano agli occhi e alla bocca della dama quella impareggiabile magia che la rende umana nella “finzione” artistica.
Lo statunitense di origine lituana Bernard Berenson, critico e storico dell’arte, a proposito di Leonardo afferma: “Qualunque cosa tocchi Leonardo diventa bellezza eterna, che si tratti della sezione di un cranio, della struttura di una foglia, dell’anatomia di muscoli, col suo istinto della linea e del chiaroscuro egli li trasfigurò per sempre in valori che creano la vita” (I pittori italiani del Rinascimento).
Ci sono dettagli che permettono di distinguere un artista da un altro, e ci sono dettagli che scolpiscono l’artista nella roccia invisibile del tempo, rendendolo un unicum nella storia dell’arte (e dell’umanità). Lo sfumato di Leonardo, per mezzo del quale riesce a riprodurre la realtà colorandola d’ombra, entra a pieno titolo in questa seconda categoria, ed è proprio per tale motivo che possiamo ammirare la presenza del suo “Genio universale” non solo sui libri o nei musei, ma anche nei più superflui aspetti della nostra vita quotidiana, che dall’opera di quel leggendario maestro trae continuamente illuminazione ed impulso.