La tavolozza del pittore, gli emoticons e lo storytelling

Disegno e colore, come informazione ed emozione: lo ying e lo yang della comunicazione verbale

Tra i tanti linguaggi che – consapevolmente o meno – usiamo quotidianamente, il linguaggio parlato è quello che più evidentemente è la somma di narrazione ed emozione: o meglio, ne è integrazione e co-evoluzione. Infatti non è possibile pensare un discorso ‘parlato’ che scinda questi due aspetti, cresciuti e cambiati insieme, senza che questo risulti disfunzionale.

La parte emozionale infatti non è altro che l’indispensabile ‘coloritura’ emotiva della narrazione.

Proviamo a ‘indossare’ questa metafora: potremmo assimilare il narrato, il ‘plot’, al disegno del soggetto, in bianco e nero: esso ne raccorda e tiene insieme le diverse parti (con pretesa di coerenza), ne indica i nessi e le consequenzialità. Ma non ci dice nulla sulla ‘qualità’ di quella specifica realtà rappresentata.

L’emozione trasmessa nel parlare è invece ciò che da ‘spessore’ e ‘dimensionalità’ al soggetto, immaginabile come il chiaro-scuro o la colorazione, l’uno o l’altra a seconda di quanto forte e evidente è l’effetto ricercato: è ciò che dà profondità e quindi realismo al disegno.

Sempre rimanendo nella metafora, posti davanti ad un quadro – pensiamo ad esempio ad un capolavoro come “L’arte della pittura”, di Vermeer – da comuni spettatori non siamo in grado di distinguerne, di scinderne le due parti, il disegno dal chiaro scuro e dalla coloritura, perché siamo coinvolti (se non spiazzati) dal risultato d’assieme.

Solo in un secondo momento, forzando la nostra attenzione, possiamo riflettere sul gioco delle parti, sul contrasto luce/ombra, sulla resa delle superfici (come la carta delle Diciassette Province ritratta sulla parete), sul tessuto della tenda panneggiata in primo piano, o sull’illuminazione allusiva che piove da una non vista finestra. A un livello diverso, possiamo poi interrogarci sulla composizione della scena e sul suo significato anche ideologico o ideale.

Fotografie di Davide Benedetto

Allo stesso modo un bravo retore è in grado di dosare forma e colori nel suo discorso, rendendoli inscindibili e indistinguibili, calando emotività nel suo parlare per sostenerne il messaggio. Di fatto, nell’attenzione concettuale, nella capacità di penetrazione e nella stessa formazione dei ricordi, l’associazione cognitiva/emotiva è ingrediente essenziale, e quando difetta o manca la comunicazione fallisce, la memoria non si consolida.

Pensiamo a due situazioni molto comuni: da un lato una riunione aziendale, magari per condividere i risultati trimestrali (produzione, vendite, investimenti o quant’altro). Dall’altro un breve messaggio su WhatsApp, magari a un amico che non vediamo o sentiamo da un po’.

La prima situazione riguarda una comunicazione funzionale, strutturale e formale: si tratta di distribuire informazioni, dandone conto e ragione; l’uditorio ha (o dovrebbe avere) un ruolo definito e un interesse specifico.

Eppure, ciò che rende efficace questa comunicazione è altrove: nei commenti, nelle battute, nella manifestazione delle micro-dinamiche interpersonali che affiancano la comunicazione ‘teorica’, creando attenzione e focus eterodiretto. Ciò che ‘resta’ del meeting è quel Quid di interpersonale ed emotivo che è passato accanto ai nudi dati tecnici o economici: spiegazioni, giustificazioni, vanterie, millanterie, il solito campionario di umane emozioni. Eccolo, il naturale desiderio di socialità professionale, e le riunioni si fanno per questo: altrimenti basterebbe ‘far girare le carte’.

Nel secondo caso abbiamo invece una comunicazione personale e affettiva, che transita però su un medium abbastanza asettico: un testo scritto, e per di più breve, sintetico, spesso sgrammaticato o abbreviato all’estremo.

Manca però qualcosa: non c’è chiarezza emotiva perché non ci sono i ‘vettori’ ad hoc che abbiamo invece a disposizione quando comunichiamo de visu (l’inflessione, le pause e il tono di voce; la mimica facciale; la prossemica etc.).

Fotografie di Davide Benedetto

Ecco allora inventati gli emoticons, deputati a trasmettere proprio quelle sfumature emotive di cui la bistrattata parola scritta non è in grado di farsi carico: con tutte le varianti e gli eccessi del caso.

Quello che manca nei due casi, se ci si limitasse alla mera comunicazione ‘funzionale’, è proprio un indicatore di senso emotivo: quale valore dobbiamo dare a ciò che stiamo ricevendo? Quale relazione dobbiamo riconoscere tra noi e chi ci ‘parla’? Possiamo ‘accogliere’ o dobbiamo ‘difenderci’ da quanto ci stanno comunicando?

Parafrasando due famose considerazioni, se “il medium è il messaggio” e “escludendo i fatti, il resto è storytelling”, dobbiamo riconoscere che – ad oggi – ogni narrazione è fatta inscindibilmente di fatti e di interpretazioni, di oggettività e sfumature, di informazioni e di emozioni: perché è semplicistico pensare che qualunque discorso o comunicazione umana possa essere scisso in una parte funzionale (fatti, informazioni, oggettività) e una parte accessoria (interpretazioni, emozioni, sfumature).

Ma entrambe le ‘parti’ sono funzionali: comunicare vuol dire anche e prima di tutto stabilire una relazione (io sono qui davanti a te e parlo con te), fatta in primis di un modo di proporsi e qualificarsi: darsi un senso, appunto, nei confronti dell’interlocutore. E questo non è affatto accessorio, né tantomeno effimero, perché è ciò che struttura i rapporti sociali in senso esteso, personali o professionali che siano.

Qualunque linguaggio è strumento, concausa e insieme sintomo dell’intelligenza: perché le nostre parole ci danno capacità di astrazione e di ragionamento logico, e insieme di creatività, poesia e invenzione. Ecco perché dobbiamo riconoscere (e onorare) la tavolozza come gli emoticons, comprimari insacrificabili di ogni storytelling.

Davide Benedetto

Davide Benedetto

Boomer atipico, lettore bulimico e disordinato già in anni giovanili, noto saccheggiatore di biblioteche scolastiche e civiche. Ingegnere per caso e già ricercatore nell’ambito dell’energia, si ricicla nella maturità (sic) come sedicente esperto in comunicazione aziendale (l’importante è che ci credano…). Single di ritorno, moto-nostalgico nonostante due figli post-adolescenti (leggi: problematici), nel tempo libero coltiva troppi interessi e un roof garden molto improvvisato

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