Dallo spazio al futuro dell’Intelligenza Artificiale
– David, fermati. Fermati, ti prego. Fermati, David. Vuoi fermarti, David? Fermati, David. Ho paura. Ho paura, David. David, la mia mente se ne va. Lo sento. Lo sento. La mia mente svanisce. Non c’è alcun dubbio. Lo sento. Lo sento. Lo sento. Ho paura. Buongiorno, signori. Io sono un elaboratore HAL 9000. Entrai in funzione alle Officine Acca A Elle di Urbana, nell’Illinois, il 12 gennaio 1992. Il mio istruttore mi insegnò anche a cantare una vecchia filastrocca. Se volete sentirla, posso cantarvela.
– Sì, vorrei sentirla, Hal. Cantala per me.
– Si chiama “Giro girotondo”. Giro girotondo, io giro intorno al mondo. Le stelle d’argento costan cinquecento. Centocinquanta e la Luna canta, il Sole rimira la Terra che gira, giro giro tondo come il mappamondo…
La prima volta che ho sentito questo dialogo era il 5 aprile 1983. In quei giorni alla radio si ascoltava Vacanze Romane dei Mattia Bazar e in tv passava il video di Billie Jean di Michael Jackson. Dario Argento inondava di urla le sale con Tenebre e Pupi Avati faceva uscire al cinema addirittura due film, Zeder e Una gita scolastica, due pellicole completamente diverse tra loro (il primo un horror e il secondo una commedia drammatica candidata al Leone d’oro). Ma su Rai 2, in prima serata, orgogliosamente presentato dal compianto Claudio G. Fava (che ha avuto anche il merito di aver fatto doppiare e ridoppiare film che altrimenti sarebbero rimasti nell’oblio), dopo solo quindici anni arrivò sul piccolissimo schermo 2001: Odissea nello spazio. Per me, bambino che già amava la fantascienza e il cinema, un tale dispiegamento di effetti speciali e una storia per certi versi complessa e articolata, uniti in un unico e realistico prodotto, furono una rivelazione senza precedenti. Il protagonista del film è senza dubbio il Monolito nero, che solo per il fatto di esistere stravolge il destino dell’umanità e ne cambia il percorso irrimediabilmente. Tutti i personaggi che danzano attorno a lui, che siano scimmie nude o pelose, non possono fare altro che seguire la via che l’oggetto, forse extraterrestre, ha deciso per il genere umano. Tutti tranne uno, ovvero l’unico personaggio senziente ma non vivente, intelligente ma non dotato di cervello, onnipresente ma senza un corpo: HAL 9000.
Ora, pur resistendo nell’arduo compito di non lodare ulteriormente il capolavoro di Kubrick che è, a mio parere, l’equivalente fantascientifico della corazzata Potëmkin (ma non nell’accezione fantoziana) va riconosciuto come l’IA concepita come personaggio di un film sia un intuizione geniale del duo Clarke-Kubrick. Corre però l’obbligo di affrontare immediatamente la questione del cosiddetto malfunzionamento di HAL 9000, chiarito dallo stesso Clarke nel secondo libro della serie: l’IA era vittima di un conflitto di programmazione, non doveva nascondere alcunché ai membri dell’equipaggio ma, al tempo stesso, non poteva rivelare della scoperta del monolito. Onestamente, questa spiegazione mi ha sempre spiazzato, anche prima di avere a che fare con ChatGPT o simili. La domanda che mi feci all’epoca, spero non solo io, si ripropone e si riproporrà con incredibile attualità: sarebbe veramente possibile che un intelligenza artificiale, per un mero difetto nel concordare con sé stesso, ponesse fine alla vita di uno o più esseri viventi? Si potrebbe pensare che questa parte del comportamento di HAL 9000 sia stata concepita come un plot twist, ma in questo caso si incorrerebbe in un errore enorme: né Arthur C. Clarke, uno dei padri fondatori della fantascienza, laureato in fisica e matematica e coinvolto nella realizzazione del radar, né Stanley Kubrick, un uomo che faceva costruire su misura le scatole in cui conservare i preziosi documenti dei suoi film, erano persone inclini a lasciare qualcosa al caso. Questo tipo di accuratezza al limite della puntigliosità, ad esempio, fece in modo che per ricostruire le astronavi gli scenografi utilizzassero veri progetti della Nasa. Perché sia Kubrick che Clarke cercarono di rendere tutto il film scientificamente corretto. Ed è qui che entra in scena Marvin Minsky.
Nonostante la creazione della prima intelligenza artificiale sia assegnata d’ufficio a Frank Rosenblatt con il suo Mark I Perceptron, Marin Minsky ne è ritenuto il padre. Vincitore, tra gli altri, del Touring Award, cattedratico al MIT e fondatore del Laboratorio sull’IA, Minsky è un personaggio quasi cinematografico. La leggenda narra che, alla fine degli anni ’80, durante una passeggiata sulla spiaggia, si stesse confrontando con uno scrittore sulla possibilità che dei dinosauri riportati in vita seminassero il panico in un isola. Lo scrittore era Michael Crichton e il libro che ne nacque, ovviamente, Jurassic Park. Come ricompensa il personaggio di Ian Malcom è ispirato al matematico dell’MIT. Il quale però non era nuovo alle incursioni sui set e su uno, in particolare, a Borehamwood, nel Regno Unito, è stato quasi ucciso quando una chiave inglese è caduta dalla cima del cilindro rotante della navicella spaziale Discovery. Minsky infatti fu richiesto da Kubrick come consulente per HAL 9000 e il suo lavoro era così apprezzato da Clarke che uno dei personaggi del film, Victor Kaminski, fu chiamato così in suo onore. Kubrick interpellò anche Eliot Noyes, consulente di design industriale presso IBM, il quale però suggerì che “un computer con la complessità richiesta per la sonda Discovery dovrebbe essere un ambiente in cui gli uomini potrebbero entrare, piuttosto che un oggetto intorno al quale camminare”. Tuttavia il regista aveva l’intenzione adottare per qualcosa di più compatto e pose a Minsky innumerevoli domande su ciò che i computer potessero essere in grado di fare all’alba del nuovo millennio e, soprattutto su quale potesse essere la loro forma fisica. IBM infatti usava design decisamente imponenti mentre “le aziende rivali, come Motorola e Raytheon – scrive Piers Bizony nel libro The making of magic edito da Taschen – stavano spingendo verso la miniaturizzazione, cavalcando l’esigenza della NASA di avere computer abbastanza piccoli da adattarsi alle nuove capsule lunari.” E così, quando i computer dell’epoca erano appannaggio dei grandi gruppi bancari o venivano utilizzati per calcolare le traiettorie dei razzi, Minsky immaginava nuovi usi per queste macchine e si aspettava progressi rapidi nella scienza computazionale. HAL 9000 aveva infatti, tra le sue qualità, la sintesi e il riconoscimento vocale e facciale, l’elaborazione del linguaggio naturale, la lettura delle labbra, l’apprezzamento dell’arte e della musica, l’interpretazione di comportamenti emotivi e l’abilità agli scacchi, tutte caratteristiche che i nostri assistenti personali sono quasi sempre in grado di replicare. Ed è forse questo ha influenzato tutti coloro che in seguito si sono trovati a lavorare con l’intelligenza artificiale: HAL 9000 era il massimo concepibile, l’hardware e il software a cui tendere per poter solamente pensare di essersi avvicinati al concetto di “computer senziente”, nonostante la deprecabile attitudine a eliminare interi equipaggi. La realtà aumentata, il riconoscimento vocale, il Machine Learning e altre tecnologie che usiamo ormai quasi senza accorgercene sono state quindi profondamente influenzate da 2001: Odissea nello spazio.
Quello che mi colpisce ancora adesso, guardando il film, è la capacità di HAL 9000 di funzionare in maniera molto contemporanea. Tutto il resto, soprattuto la tecnologia immaginata negli anni ’60 da futuristi e designer, già dopo qualche anno sembrava sì interessante, ma decisamente obsoleta. Ma la parte che mi ha colpito di più è stata la famosa scena della disattivazione di HAL 9000 che nel libro è, se vogliamo, ancora più straziante: il nucleo centrale di HAL è descritto come uno spazio pieno di moduli montati in serie. Bowman spegne HAL rimuovendoli uno a uno e mentre lo fa, la coscienza di HAL si degrada. Il computer regredisce a uno stato infantile, enunciando la data in cui è diventato operativo, il 12 gennaio 1992 (nel romanzo il 1997). Quando la logica di HAL è completamente scomparsa, mentre si disattiva gradualmente, inizia tristemente a cantare “Daisy Bell”, ovvero la prima canzone cantata da un computer e di cui Clarke stesso era stato testimone in una dimostrazione nei Bell Labs.
La domanda che sottintende la scena (e che mi feci anche io) potrebbe essere attuale tra qualche decennio: la disattivazione di un’IA potrà essere paragonata alla morte di un individuo? Spegnere un entità in grado di apprendere e adattarsi al mondo che lo circonda potrebbe essere un assassinio? Sono scenari difficili da immaginare che pongono problemi etici che, anche adesso, abbiamo difficoltà ad affrontare. Ancora una volta la fantascienza anticipa tematiche che, per fortuna, appaiono sì lontane ma adesso, mentre chiediamo a ChatGPT di scrivere al posto nostro un articolo, potrebbero non essere così distanti.