Quando il colore è assente

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Vivere il mondo in chiaroscuro

Prendete una storia che narri di successo e disgrazia, amore e fedeltà, orgoglio e rivincita, magari ambientata nel rutilante mondo dello spettacolo. Immaginate di ricavarne un film appassionante, con ritmo serrato, effetti interessanti e bravissimi attori a interpretarlo. Visualizzate qualche scena. Bene. Ora però togliete il colore, convertitelo in sfumature di grigio. Poi togliete anche il suono. “Ma dai, oggi non può più funzionare un film in bianco e nero, e anche muto!”.

Invece sì: “The Artist” (2011) vinse ben 5 Oscar, oltre a molti altri premi. E puntarono sul bianco e nero, con motivazioni molto diverse, anche “Il cielo sopra Berlino”, “Frankenstein Junior”, “Schindler’s List” e “L’uomo che non c’era”. Film di successo, nonostante l’assenza di colore, eppure molto intensi, comunicanti atmosfere particolari. Ma quando il film finisce e torniamo in strada i nostri occhi si riempiono di nuovo di colori; come sarebbe invece se, una volta usciti dal cinema, continuassimo a vivere in un mondo in bianco e nero?

Questo è quello che accade quando si è affetti da acromatopsia, l’incapacità totale di percepire qualunque colore, una cecità cromatica. Rimasi basito quando un mio collega, mentre accennavo a una mostra di pittura, disse: “Forse hai ragione ma io sono totalmente freddo all’arte. Sono daltonico”. Chi è affetto da questa condizione presenta carenza nella retina di una delle tre tipologie di coni deputate a riconoscere i colori fondamentali, Rosso, Verde, Blu, i quali, fusi in varia proporzione, determinano le più di 200 possibili sfumature cromatiche che possiamo distinguere. Il mio collega era forse troppo rinunciatario nel suo approccio all’arte ma quale può essere allora il vissuto di una persona che, invece di confondere tra loro alcuni colori, come i daltonici, non ne vede alcuno? Anzi, non ne ha mai conosciuto alcuno, soffrendo di acromatopsia congenita fin dalla nascita?

Il dottor Oliver Sacks cercò la risposta in un luogo quasi agli antipodi della sua New York, in Micronesia, nell’isola di Pingelap (Oliver Sacks, “L’isola dei senza colore”, Adelphi 1997), dove una gran percentuale della popolazione nasceva acromatopsica e aveva conformato la propria cultura sociale a tale situazione. Una situazione lontana dal singolo caso patologico, come quella di chi invece sviluppa l’acromatopsia per una progressiva sindrome degenerativa dei coni (distrofia dei coni).

La singolarità aveva origine dal tifone Lengkieki che nel 1775 “uccise in un sol colpo il novanta per cento della popolazione dell’isola” e distrusse quasi tutte le risorse, per cui molti altri poi perirono per fame. I pochi scampati si incrociarono tra loro, spesso tra consanguinei, e furono prolifici nel ricostruire una comunità. Ma le conseguenze genetiche furono la comparsa di caratteri normalmente rari. All’inizio del novecento, con la IV generazione successiva al tifone, si fece largo la nuova malattia.

L’acromatopsia è una condizione limitante. Chi ne è affetto ha un ridotto campo visivo e una dolorosa ipersensibilità alla luce, per cui la vita si intensifica nelle ore serali e notturne. Ciò nonostante, gli abitanti di Pingelap affetti da cecità cromatica non la considerano un’invalidità. In una società in cui sono acromatopsici sia maestri che alunni, e così figli, genitori o nonni, in proporzione di almeno uno su dodici, la partecipazione alla vita sociale è completa, seppure difficoltosa.

In genere riteniamo minorazioni del genere causa di sofferenza continua e privazione di aspetti significativi. Invece a Pingelap, data l’estensione del fenomeno e la sua condizione congenita, vige una totale accettazione del proprio stato, peraltro bilanciato da altre acutizzazioni dell’integrazione percettiva. Come il saper cogliere molto più finemente, in condizioni di bassa illuminazione, le differenze di tonalità, luminosità, saturazione, forma e tessitura. Così come raccontato in quest’aneddoto:

«E le banane?» chiese Bob. «Riuscite a distinguere quelle gialle da quelle verdi?»

«Non sempre» rispose James. «Il “verde pallido” può sembrarmi uguale al “giallo”».

«E allora come fate a dire quando una banana è matura?»

Per tutta risposta James si avvicinò a un banano e tornò portando a Bob un frutto scelto con attenzione, di un bel verde brillante.

Bob provò a sbucciarlo, e si accorse, sorpreso, che la buccia veniva via facilmente. Diede un piccolo morso d’assaggio, con circospezione; e subito divorò il resto.

«Vedi,» spiegò James «noi semplicemente non ci basiamo sul colore. Guardiamo, tastiamo, odoriamo, sappiamo: prendiamo in considerazione tutto, mentre voi pensate solo al colore!»

La condizione patologica che impedisce di vedere i colori non si genera solo per un difetto dalla nascita ma può presentarsi in forma di acromatopsia corticale, causata da un trauma cerebrale (quale un ictus) cui consegue la distruzione di alcune piccole zone del cervello non più grandi di un fagiolo: le insulae V4. Gran parte del cervello è correlata in vario modo alla funzione della visione: vi sono aree visive specifiche distinte in primarie (V1 e V2) e secondarie (V3, V4, V5), queste ultime comunque essenziali, essendo specializzate nella percezione delle forme (V3), del movimento (V5) o, appunto, del colore (V4). Non è possibile la vista cromatica senza la funzione delle piccole insulae V4.

L’esperienza progressiva di chi è colpito da questa patologia è ancor più sorprendente. A causa di una commozione cerebrale, conseguente a un incidente, il signor I., un pittore in età matura, una persona per cui i colori erano parte fondamentale della sua vita, si trovò nella condizione di cecità cromatica assoluta: d’improvviso il mondo era diventato in chiaroscuro e provò a chiedere l’aiuto di Sacks (Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi 1995). Il neurologo nulla poté fare tranne consigliare tecniche di adattamento, ma ciò gli diede modo di seguire l’evoluzione di tale situazione.

Inizialmente subentrò per il signor I. la disperazione totale per l’impossibilità di proseguire la propria opera e non poter più valutare cromaticamente il mondo che lo circondava. La sua visione ormai dipendeva sostanzialmente dai prodotti delle aree V1, bozze visive non rifinite dall’elaborazione di altre aree. All’inizio non distingueva neanche le lettere ma poi riacquistò una finezza di visione perfino eccessiva e con precisione di messa a fuoco (“riesco a vedere un verme che striscia a un isolato di distanza”, “arrivo a leggere le targhe delle macchine a quattro isolati di distanza”). Ma senza neanche un’ombra di colore: il suo cane marrone era diventato grigio, il pomodoro nero e così via. Una situazione angosciante per chi creava tele traboccanti di colore. Il suo stesso studio gli appariva come una varietà di grigi. 

La perdita del colore era totale e non solo nella visione corrente: il signor I., che conosceva e sapeva descrivere perfettamente ogni sfumatura di colore, ne aveva ormai solo un puro ricordo verbale. I colori non comparivano più neanche nella sua mente, nella sua immaginazione. Anche i suoi ricordi e i suoi sogni erano ormai in bianco e nero. 

L’unica compensazione era l’enorme acuità di visione, specie notturna, e una forte sensibilità al contrasto tonale. Eppure, superata la prima fase angosciosa, quando ogni residuo rapporto col colore scomparse, il signor I. trasformò questa sventura in un’opportunità: ora vedeva un mondo di pura forma, era in grado di distinguere le più minute caratteristiche delle superfici e così cominciò a dipingere tele in sfumature di bianco e nero, seguendo la sua nuova sensibilità, più elevata del comune, ottenendo un successo di critica per la sua ‘nuova verve pittorica’. Diventò un essere notturno per fruire al massimo di tali capacità. Quando, qualche anno dopo, gli fu prospettata l’ipotesi che con un training neurologico si potessero surrogare le funzioni delle V4, egli rifiutò: il colore aveva ormai perso ogni significato, non riusciva più a immaginare di rivivere una vista cromatica. Era ormai completamente integrato, neurologicamente e psicologicamente, in una nuova vita artistica che lo soddisfaceva e un ritorno al passato avrebbe solo creato una grande confusione.

È difficile immedesimarsi in un’esperienza del genere e immaginarne la sensazione. Al tempo stesso è confortante sapere delle capacità di adattamento dell’uomo a condizioni nuove e stranianti. Anche in questo è la ricchezza delle possibilità della vita.

Arnaldo Carbone

Arnaldo Carbone

Ex fisico. Ex ICT. Alfiere dell’innovazione etica. Disserta di neuroscienze ma scrive poesie. Impenitente bibliofilo e Socio Mensa.

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