Strategie di controllo culturale agli albori della storia di Homo sapiens
Il complesso rapporto tra pensiero, linguaggio, lingua e grafia è stato oggetto di un dibattito articolato, caratterizzato da un susseguirsi di analisi e chiavi di lettura differenti.
La prima corrente interpretativa degna di menzione è quella legata alla figura di Ferdinand De Saussure, fondatore della linguistica generale (Cours de linguistique générale, 1916). Rifacendosi al pensiero di Aristotele esposto nel De Interpretatione (Περί ἑρμηνείας, I, 4-6), secondo cui non esisterebbe un rapporto diretto tra la sfera del pensiero e quella della scrittura – dato che la lingua svolgerebbe un ruolo di mediatrice tra le due –, De Saussure ha supposto che lo scritto sia del tutto secondario all’oralità, trovando la sua ragione d’esistere solo come trasposizione di quest’ultima. Posizione ripresa e ampliata anche dal linguista Leonard Bloomfield (Language, 1933), che ha visto nella scrittura un’invenzione recente, storicamente secondaria alla lingua, andando a rimarcare la concatenazione gerarchica “pensiero-linguaggio-lingua-scrittura”.

Nella seconda metà del secolo scorso, il glottologo e linguista Giorgio Raimondo Cardona (Linguistica generale, 1969; Introduzione all’etnolinguistica, 1976) ha per certi versi scardinato il precedente modello interpretativo sottolineando che la grafia, quindi la scrittura, può essere in rapporto sia con il pensiero sia con la lingua. Secondo tale assunto, ci può quindi essere una derivazione della grafia dalla lingua, ma al contempo possono esistere anche scritture collegate direttamente al pensiero, in grado di codificarlo senza passare attraverso quest’ultima. Un’impostazione da cui è derivata una strutturazione tipologica delle scritture, suddivisibili in “linguistiche” (a loro volta distinte in “fonetiche” e “non fonetiche”), che comprendono anche il nostro sistema scrittorio, e in “non-linguistiche”, tra le quali rientrano la pittografia (motivazioni iconiche, disegni di oggetti, ecc.), l’ideografia (concettualizzazioni simboliche o astratte) e i segni mnemotecnici (come i Proverbi Akan del Ghana, un sistema di segni ai quali sono associati dei proverbi, oppure i Quipu Inca, un sistema di cordicelle colorate annodate utilizzato in ambito precolombiano per registrare e trasmettere informazioni).
Partendo da questa impostazione teorica, negli ultimi decenni gli studi etnolinguistici hanno fatto ulteriori passi in avanti, giungendo a un nuovo schema interpretativo che vede la lingua e la grafia come parallele e interconnesse (ovvero non l’una subordinata all’altra) e, al contempo, come due prodotti del linguaggio, connesso a sua volta al pensiero. In altri termini, come riporta il glottologo ed etnolinguista Glauco Sanga: il pensiero andrebbe inteso come la facoltà di elaborare rappresentazioni mentali e il linguaggio come la capacità di fissare il pensiero in simboli materiali, mentre la lingua e la scrittura sarebbero di conseguenza delle forme del linguaggio, rispettivamente vocale-uditiva (verbale) e manuale-visiva (grafica e plastica) (Scrivere tessere tracciare, contare cantare sognare. Tre postulati su scrittura, lingua, pensiero, 1995).


Le tracce grafiche e plastiche prodotte dall’uomo testimoniano in modo inequivocabile che fin dal Pleistocene c’è stato un tentativo da parte di quest’ultimo di proiettare sulla realtà delle rappresentazioni mentali, per esercitare su di essa un controllo di tipo culturale, irretendola, ordinandola e riplasmandola al fine di soddisfare le proprie esigenze. È evidente, in sostanza, una spinta graduale di tipo classificatorio e codificante – connessa allo sviluppo cognitivo –, esercitata dall’uomo sul mondo naturale e caratterizzata da un bisogno di conferire a quest’ultimo senso e valore attraverso l’elaborazione di un “ordine immaginato umanamente strutturato”, avente alla base un “linguaggio simbolico” fondato sul legame tra significanti materiali (segni) e significati mentali (senso).
Ovviamente si tratta di una sofisticata illusione. Tuttavia, la capacità della mente umana di credere ai propri costrutti ha conferito loro potere ed efficacia, permettendo all’uomo di passare progressivamente da una posizione marginale ad una posizione sempre più centrale, attiva e dominante nel mondo. Uno sforzo che ha avuto una accelerata nel corso del Paleolitico Superiore, con l’ascesa e diffusione di Homo sapiens, e ovviamente del Neolitico, il periodo in cui hanno preso avvio nuove forme di controllo umano della natura attraverso la domesticazione animale e vegetale.

Un esempio abbastanza chiaro di applicazione del linguaggio simbolico sulla realtà è la rielaborazione culturale di elementi e aspetti che caratterizzano la sfera sessuale. Questa tendenza è infatti riscontrabile fin dal Paleolitico, mantenendo una sua centralità anche nel Neolitico e nei periodi successivi, in virtù dell’importanza conferita alla sopravvivenza della specie e della comunità, nonché alla necessità di comprendere e domesticare la fertilità animale e la vitalità ciclica vegetale per il proprio sostentamento.
Studiando le rappresentazioni parietali in grotta del Paleolitico Superiore, l’antropologo e archeologo André Leroi-Gourhan (Les religions de la Préhistoire, 1964; Le Geste et la Parole, 1964-5) e l’archeologa Annette Laming-Emperaire(La signification de l’art rupestre paléolithique, 1962) hanno infatti notato dei segni ricorrenti, suddivisibili in larghi e stretti, che si rapportano in modo non casuale con gli animali ritratti, a loro volta connessi a una simbologia di tipo sessuale (centrale anche nell’arte plastica, con riproduzioni in pietra e in osso di falli e figurine femminili con seni, ventri e glutei pronunciati). Nello specifico, all’entrata delle grotte si trovano sovente segni maschili, mentre addentrandosi al loro interno ci si imbatte maggiormente in segni femminili, accompagnati da segni maschili: un sistema binario rappresentato simbolicamente sia in forma animale, con il binomio Bisonte-Femminile e Cavallo-Maschile, sia in forma geometrica, con segni larghi legati al genere femminile (vulve stilizzate, segni ovali, triangolari e rettangolari) e segni stretti legati a quello maschile (punti, lineette e bastoncini).

Ma la questione è decisamente più complessa di così, specie se si considera che entrambi gli animali citati possono presentare, a seconda del contesto, connessioni simboliche con ciascuno dei due generi. Due esempi in tal senso possono essere: a) la famosa figura teriantropomorfa (con sembianze umane e animali) della grotta francese di Trois-Fréres, che oltre ad essere ritratta intenta a suonare uno strumento musicale, ha fattezze da bisonte ed è itifallica (caratterizzata da un fallo in erezione); b) la raffigurazione di una vulva con a fianco un bisonte, rinvenuta nella grotta francese di Chauvet-Pont d’Arc. Nel primo caso si ha una palese corrispondenza tra bisonte e genere maschile, oltre ad un esempio di simbologia sessuale (fallo in erezione) connessa alla vitalità/creatività umana (strumento musicale suonato dalla figura) e al marcato rapporto antropico col mondo naturale-animale (teriantropia), dal quale l’uomo preistorico stava emergendo progressivamente, acquisendo un ruolo dominante. Nel secondo caso, invece, non è chiaro se il bisonte abbia semplicemente un legame simbolico con la vulva, rivestendo il ruolo di simbolo connesso al genere femminile, oppure se, al contrario, quello raffigurato sia un tentativo di penetrazione dell’organo femminile da parte dell’animale: in ogni caso si tratta di una simbologia sessuale che, inserita in un contesto che presenta anche scene legate alla caccia e alla morte, palesa il desiderio di equilibrare i due principi fondamentali della condizione umana, animale e vegetale, ovvero la morte e la vita, riunendoli in un unico luogo e in un’unica azione, come le fasi di un ciclo.


A testimonianza dell’estensione di questo linguaggio figurativo basato sulla complementarietà degli opposti, si potrebbe citare la presenza di figure itifalliche in raffigurazioni artistiche legate al tema della morte. Basti pensare, per il Paleolitico Superiore, al famoso uomo-uccello della grotta francese di Lascaux, rappresentato vicino a un bisonte ferito, oppure, per il Neolitico, alla figura acefala (priva di testa) scolpita su un pilastro di una delle strutture circolari in pietra rinvenute nel sito anatolico di Göbekli Tepe, contesto in cui, al pari di altre regioni vicino-orientali, veniva praticata l’asportazione rituale del cranio dei defunti. In entrambi i casi il fallo in erezione è stato caricato di una stratigrafia di significati culturali che lo ha reso, nel contesto figurativo funerario in cui è inserito, un simbolo di fertilità e vitalità, di vittoria sulla morte e di prosecuzione della vita dopo di essa, su impronta dei cicli di morte e rinascita in natura.

Rimanendo nel contesto neolitico euroasiatico, il rinvenimento di sculture antropomorfe con le mani sui seni, sul pube o sul ventre – a volte arricchito da spirali o cerchi concentrici –, testimonia non solo l’importanza culturale conferita al potere generativo femminile e maschile, ma anche l’estensione del linguaggio simbolico sul piano applicativo, che lo ha portato a coinvolgere ogni aspetto della realtà, compresa la gestualità. Un quadro che si complica ulteriormente se si considera che a volte il sesso delle figure è volutamente non esplicitato e che, in alcuni casi, in una stessa figura sono presenti degli elementi legati sia al genere femminile sia a quello maschile (ne sono un esempio le figurine femminili di forma fallica). A riprova che la complessità della realtà si ripercuote inevitabilmente a livello simbolico attraverso un linguaggio articolato, basato su concetti e segni trasversali che trascendono i confini di genere, che da sempre è stato sfruttato dall’uomo per concretizzare l’atavica e titanica impresa di irretire culturalmente l’incontrollabile.

